Viva chi vince

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Molto è stato scritto sul brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno d’Italia, considerato nella sua articolata complessità. Quello, però, che ancora oggi manca, e di cui gli studiosi avvertono la necessità, è un’approfondita, minuziosa storia regionale del ribellismo meridionale, che consenta, con un’attenta ricerca bibliografica e un lungo, paziente, meticoloso lavoro di “scavo” negli Archivi di Stato, in quelli comunali, ecclesiastici e privati, il recupero di memorie e testimonianze di chi quei fatti ha vissuto. La storia e le storie ritrovate aiutano a capire, al di là di tutti gli schemi precostituiti e delle strumentalizzazioni ideologiche, cosa abbia veramente significato il brigantaggio nelle tribolate province dell’ex Regno di Napoli. Sono riportati alla luce episodi di storia “minore”, tante “microstorie”, che danno voce non solo ai principali protagonisti, ma anche, e soprattutto, a coloro che, inermi spettatori, insignificanti comparse, hanno vissuto il dramma di quegli anni di profondo malessere, inghiottiti dalla storia, dalla “grande storia”.

Hanno scritto su  “Viva chi vince”

Analizzare il brigantaggio andando al di là delle generalizzazioni è una sfida immensa, che la storiografia italiana si trova di fronte, resa più impegnativa dalla vastità del teatro di operazioni, che comprende gran parte del Mezzogiorno continentale e dalle enormi differenze locali, che ogni sintesi tende a dimenticare, ma che invece debbono essere portate in primo piano. Il lavoro è appena cominciato; e il libro di Peppino Clemente sul brigantaggio nel Gargano ne offre un modello esemplare. Un territorio con le sue specificità, che l’autore conosce bene e su cui quindi non rischia generalizzazioni frettolose; archivi locali ricchissimi, esplorati a tappeto, badando però a incrociare i risultati con la documentazione conservata negli archivi nazionali, come quello dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito a Roma; un periodo cronologico ristretto, che le fonti stesse dell’epoca identificano con chiarezza. Peppino Clemente ha compiuto un lavoro enorme, a coronamento di una vita di studi; il risultato è un pezzetto di mosaico, brillante e coloratissimo, che lascia intravvedere cosa potrà diventare l’insieme, quando molti altri ricercatori avranno seguito la strada indicata dall’autore, l’unica che ci permetterà un giorno di affermare qualcosa di sicuro sul brigantaggio postunitario.
Alessandro Barbero

Immagino il Suo lungo lavoro di ricerca,  condotto pazientemente negli archivi. Quante lotte, quante sofferenze e quanti lutti per le povere famiglie del Gargano emergono dal Suo densissimo volume. Complimenti per questo lavoro così fondamentale non solo  per la storia pugliese ma anche per capire meglio problemi e vicende italiane nell’Ottocento.
Arnaldo Ganda

La presentazione di Barbero è la più qualificata per garantire la validità della sua ricostruzione, basata non sulle chiacchiere ma su una accurata e probante raccolta di informazioni: benché limitata al Gargano, resterà esemplare per chiunque voglia affrontare la storia del brigantaggio da una prospettiva logica come quella regionale, il che, visti i vari archivi da lei consultati, non vuol dire riduzione dello spazio della ricerca, ma profondità e perspicuità della stessa. Sono gli stessi studiosi facenti capo all’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano a portare in luce certe clamorose storture del processo di unificazione: perché non esiste una verità di comodo,  ma una sofferta e talvolta dolorosa ricostruzione della realtà. Grazie dunque per il suo impegno.
Giuseppe Monsagrati

Il volume di Clemente nella sua ricchezza documentaria fa avvertire l’esigenza di costruire una mappa dei fenomeni briganteschi per tutto il Mezzogiorno, che ne illumini le variegate e spesso contraddittorie manifestazioni.
Renata De Lorenzo

Il brigantaggio in Capitanata

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I numerosi documenti schedati, molti dei quali assolutamente inediti, non rappresentano certamente tutto quanto è accaduto in quegli anni. Ne costituiscono solo una parte, forse anche limitata, quella cioè denunciata alle autorità o riportata dai documenti di funzionari civili e militari. I dati che ci offrono, tuttavia, pur nella loro parzialità, sono sufficienti a darci un’idea chiara e inequivocabile della vastità del fenomeno che ha coinvolto tutta la popolazione.
Sono un campionario di atrocità e brutture. Non solo gli atti processuali, più coinvolgenti per l’immediatezza e la vivacità delle testimonianze, ma anche le carte amministrative, pur nel loro freddo linguaggio burocratico. Ci fanno conoscere episodi spesso assai drammatici, prima del tutto ignoti, e ci forniscono dati che gettano una luce nuova su quei tristi avvenimenti.

Le soppressioni degli ordini monastici

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Tra gli avvenimenti che caratterizzarono il decennio francese nel Regno di Napoli come uno dei periodi più significativi nella storia del Mezzogiorno, perché in esso si avviarono e si svilupparono con maggiore intensità quei processi  che ne modificarono in misura rilevante le strutture sociali, la soppressione degli ordini monastici fu forse quello che più di ogni altro ebbe particolare incidenza sulla vita non solo religiosa, ma anche sociale ed economica delle popolazioni per i profondi rivolgimenti causati nella organizzazione e nella distribuzione sul territorio dei conventi.
Le soppressioni volute da Giuseppe Bonaparte e da Gioacchino Murat resero travagliata l’esistenza dei religiosi, in genere di umili origini, cacciati dai conventi e inviati d’autorità alle diocesi di appartenenza; come pure frustante fu la vita dei frati appartenenti agli ordini mendicanti, più vicini e più legati al popolo, “lasciati a convivere e a sopravvivere nei chiostri, ma senza prospettive future”.
Gli ordini religiosi erano considerati una inutile “sovrastruttura” della chiesa e, come tali, avversati. Alla base, però, di queste dichiarazioni di principio, c’erano motivi estremamente pratici, perché la chiusura dei conventi fornì al governo francese la possibilità di reperire i locali per le caserme, occorrenti alle truppe stanziate sul territorio, per le Intendenze, appena istituite, e per i municipi, di cui molti comuni erano privi e la vendita dei beni degli ordini possidenti procurò il denaro, molto denaro,  per le spese militari e per il riordinamento dello Stato.
Un avvenimento di così vasta portata influenzò la vita della povera gente e ne sconvolse le abitudini e le coscienze.

Febbraio 1799

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Le vicende del febbraio 1799 costituiscono senza dubbio una delle pagine più tragiche della storia plurisecolare della città di San Severo. Forse solo il terremoto del 30 luglio 1627 può essere paragonato, per quantità di rovine e di perdite umane, agli eventi del 1799, ma con una fondamentale differenza. Mentre infatti le sciagure provocate dalle forze scatenate della natura affratellano di solito coloro che ne sono colpiti, quelle causate dalla volontà degli uomini inaspriscono gli animi e generano sentimenti di odio e propositi di vendetta.