Le soppressioni degli ordini monastici

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Tra gli avvenimenti che caratterizzarono il decennio francese nel Regno di Napoli come uno dei periodi più significativi nella storia del Mezzogiorno, perché in esso si avviarono e si svilupparono con maggiore intensità quei processi  che ne modificarono in misura rilevante le strutture sociali, la soppressione degli ordini monastici fu forse quello che più di ogni altro ebbe particolare incidenza sulla vita non solo religiosa, ma anche sociale ed economica delle popolazioni per i profondi rivolgimenti causati nella organizzazione e nella distribuzione sul territorio dei conventi.
Le soppressioni volute da Giuseppe Bonaparte e da Gioacchino Murat resero travagliata l’esistenza dei religiosi, in genere di umili origini, cacciati dai conventi e inviati d’autorità alle diocesi di appartenenza; come pure frustante fu la vita dei frati appartenenti agli ordini mendicanti, più vicini e più legati al popolo, “lasciati a convivere e a sopravvivere nei chiostri, ma senza prospettive future”.
Gli ordini religiosi erano considerati una inutile “sovrastruttura” della chiesa e, come tali, avversati. Alla base, però, di queste dichiarazioni di principio, c’erano motivi estremamente pratici, perché la chiusura dei conventi fornì al governo francese la possibilità di reperire i locali per le caserme, occorrenti alle truppe stanziate sul territorio, per le Intendenze, appena istituite, e per i municipi, di cui molti comuni erano privi e la vendita dei beni degli ordini possidenti procurò il denaro, molto denaro,  per le spese militari e per il riordinamento dello Stato.
Un avvenimento di così vasta portata influenzò la vita della povera gente e ne sconvolse le abitudini e le coscienze.

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